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venerdì 20 gennaio 2012

eat parade

Certamente non pretendo di riuscire ad alleggerire con un post umile e scanzonato il carico (senza alcun riferimento voluto al concetto di bastimentoànaveàCeline Dion) di notizie che quotidiani, reti televisive e pagine web ci hanno consegnato in questi giorni – anche se il solo fatto che il 2011 abbia visto il trionfo di una Pippa e il nuovo anno si apra con un'altra (ok, con una P in meno) credo non lasci presagire nulla di buono, damned Mayans.
Ma è proprio nei periodi più bui che gli uomini si rifugiano nelle certezze, e non v'e' dunque momento migliore per esplorare il tema tanto scontato quanto soddisfacente della gastronomia locale. E dopo un anno e mezzo trascorso nel regno della patata, ritengo di poterlo fare con cognizione di causa – per giustizia, specifico agli eventuali lettori con cromosoma Y ed etero che il termine di cui sopra è da intendersi come tubero commestibile, e non giustifica pertanto la corsa su volagratis.it alla ricerca di super offerte in direzione Belgio.

Prima di entrar nel merito dell'occasione specifica che è un po’ all’origine di queste righe, è necessaria una premessa che illustri i motivi di una trattazione che sarà volutamente ricca di stereotipi.  Al primo posto dell’hit parade dei luoghi comuni, più ci si allontana in qualunque direzione dall'Italia, più ci si deve abituare all'idea che non si mangerà mai così bene come in Italia. Cosa che in sé ha un suo fondamento, digiamolo. Personalmente, ai miei esordi da expat cercavo di comportarmi da pacata globetrotter e di non incapricciarmi con la pretesa di trovare l’Estatè e il Nonno Nanni agli stessi prezzi in qualunque altro stato del mondo. Poi è comparso il desiderio di riscatto, e in un impeto patriottico risorgimentale ho detto BASTA  ai compromessi J E anzi, non ho problemi a ribadire a tutte le persone che non perdono occasione per deridere il mio paese e i suoi inguaribili mali che sì, avremo la gerontocrazia nelle università, il governo tecnico, le raccomandazioni, la criminalità organizzata al Nord e al Sud, la Lega, la Salerno-Reggio, la disoccupazione al 30%, ignoti volontari che pagano le vacanze e l'affitto ai membri della Casta e quant'altro, ma GUAI a mettere in discussione le nostre competenze in materia culinaria. Che in fondo (e qui scatta il luogo comune numero due) è uno dei pochi marchi che ci resta, visto che abbiam fatto del nostro meglio per uccidere i poeti e dimostrare di non essere un popolo di santi - men che meno di navigatori. Ma almeno lasciatece magna'.

Chiarite dunque le basi della polemica, analizziamo nel dettaglio i miei motivi di discordia con la cucina del posto. Chi ha avuto il piacere di sperimentare di persona, saprà che gli autoctoni sono tendenzialmente biondastri, dalla carnagione chiarissima e con le gote rosse, e variamente flaccidi. Il che è presto spiegato se si elencano gli alimenti di base della dieta belga: patate, uova, cipolle, cavoli, carne rossa, formaggi stagionati e birra. Su tutto trionfa il burro, che qui sostituisce l'olio e compare spesso nella composizione delle >30 salse che sinora ho potuto contare. Anche l'insalata –  che solitamente fa rima con dieta – viene proposta con le scaglie di Emmental, le uova sode e i cubetti di pancetta, o meglio i lardons che in lingua originale ti fanno sentire in colpa al solo pronunciarli. Si narra tra gli espatriati che dopo un anno trascorso in loco si prendano in media sette chili. Oibò.  
L’elenco non esaustivo dei piatti tipici include il sanguinaccio, polpette al sugo, stufato di manzo, rollè di carne chiamato "uccello senza testa" giusto per renderlo più succulento all'orecchio del turista, coniglio cotto nella birra, purè di patate e porri e, immancabile, l'anguilla (sguishhh) alle erbe. Il primo grazie a Dio lo saltiamo a piè pari – perché no, non volete farvi cucinare una pasta al sugo da un belga dati i summenzionati presupposti. Diremo però che i nostri farinacei vengono gioiosamente sostituiti da zuppe tendenti al marroncino e preparate con lo scalogno, i broccoli, il mais etc. che pare allietino i gourmands locali. Per quanto concerne le bevande, si sappia che è lecito e quasi doveroso pasteggiare con la birra, spesso una trappista dagli 8 gradi in su – vedi mai che l'uccello ritrovi la testa perduta e spicchi il volo su per l'esofago.
Nata e cresciuta in un paese di mare, mi rallegra che, accanto al succitato animale cilindrico, in pescheria si possano trovare anche dei pesci normali come la sogliola e la pescatrice che continuo felicemente a cuocere nel forno con pomodorini, capperi ed olivette in barba al monito europeo sullo sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche. Senza burro (sfidando scomunica dalla chiesa del quartiere).



Date le aspettative della cucina locale, capirete la difficoltà dinanzi all'invito ricevuto qualche giorno fa da una coppia di amici di amici di amici di amici naturalizzata belga (ahimè, anche in cucina): al di là della sensazione, come dire, di straniamento nello stare a tavola con una ventina di persone che si conoscono a malapena di vista, la scelta del menu non ha aiutato a rendere l'atmosfera più gioviale – per banalità, daremo la colpa alla salsa all'aglio che fungeva da piumone, più che da letto, per la carne. Di fronte al trittico pomodori ripieni di gamberetti in salsa rosa-bistecca con salsa aïoli e (guess what?) patate al vapore-crostata al rabarbaro, anche lo stomaco del mio consorte (che di norma potrebbe reggere anche un cinghiale selvatico intero, purché senza peli) ha gettato la spugna. Attendevamo dunque con ansia il riscatto del caffè fino a quando si è scoperto che in onore delle origini diciamo dell'est della padrona di casa, la bevanda in questione era stata preparata secondo la ricetta alla turca, ovvero acqua bollente, cucchiaiate di caffè in polvere e giù, nelle tazze – per carità, Domen ha gradito, io volevo prenderla a padellate.

Dopo tre amari e un Ferrero Rocher ci siamo congedati dagli ospiti e dal resto degli sconosciuti con la promessa di ricambiare il loro invito, same time our place. Possibilmente senza aglio.



Per carità, non nego che, come tutti e forse più di altri, sul capitolo cibo io riesca a transigere poco. Ma in realtà, intimamente, credo sia un atteggiamento condiviso da una buona maggioranza dei palati, più che dei cervelli, dei connazionali espatriati. Probabilmente quelli esigenti siamo noi, con i nostri vizi e virtù da buongustai, col chiodo fisso della pasta al dente e della moka, con l'olio extravergine che regna sovrano dovunque specie sul pane casareccio per il più semplice e buono dei pasti. Siamo noi ad essere stati educati al sapore delle cose buone, ai profumi che si sposano a un buon bicchiere di vino, ad una tavolozza di colori nel piatto e agli ingredienti che cambiano con le stagioni (effettivamente, si può dire che da noi le stagioni ancora cambino). Siamo noi ad attribuire al cibo un valore che va oltre il semplice concetto di alimento, siamo noi a credere che tramite il cibo un popolo esprime la sua visione del mondo e della vita.
E si sa che a parlarne con un italiano non se ne esce vivi, poiché si finisce sempre o sul litigio (solitamente con uno straniero recalcitrante) o sull'ammirazione (con uno straniero "italofilo") o sulla nostalgia (con un conterraneo all'estero).

Forse almeno in questo ci resta qualcosa da condividere, se non proprio da insegnare.
Qualcosa che continua ad alimentare i diffusi luoghi comuni.
Qualcosa che sia ancora nostro vanto.
Ma riusciamo a fare in modo che non se ne accorga nessuno, tanto sembriamo abituati a comportarci da Italietta.

giovedì 12 gennaio 2012

everybody needs a Willy :-)


A gennaio, si sa, il ritmo di lavoro riprende in maniera direttamente proporzionale alla scomparsa degli "out of office" dalle caselle di posta elettronica.
Personalmente, al sesto giorno di messaggi introdotti da Buon anno/Buon rientro/E' stato piacevolissimo lavorare con lei durante tutto il 2011, ho smesso di scrivere convenevoli di circostanza – specialmente a quelli che in base a bizzarre supposizioni, mi hanno chiesto come ho trascorso le vacanze a casa in Romania...

Anno nuovo chiama a sé l'inevitabile lista di nuovi propositi, da aggiungere puntualmente a quelli che si trascinano dall'anno scorso e da quelli precedenti. Sorvoliamo pertanto sull'argomento e sui temi più gettonati per non tediare ne' chi scrive ne' chi legge - vale a dire l'autore e pochi adepti
Anno nuovo porta con sé le novità di rito dei colleghi: chi torna con il taglio di capelli nuovo, chi con gli occhiali nuovi, chi con le tette nuove (che se sono veramente il risultato dell'allattamento, I wish I can get pregnant now, buon Dio). Poi c'e' chi arriva carico di idee nuove che dovrebbero teoricamente portare una ventata di freschezza nella pesante, quotidiana eurocrazia, idee immediatamente smontate nella prima riunione di unità di gennaio. Ed infine c'e' chi cambia i regolamenti interni, le procedure, gli accordi inter-istituzionali e si spinge fino all'organigramma pur di non cambiare di fatto nulla, come nella miglior visione gattopardesca.


Pensavo ai cambiamenti e alle giornate che passano sempre troppo in fretta mentre assistevo la settimana scorsa alla "svestizione" dell'albero di Natale, un timido abete nano piazzato un po' in disparte in un angolino della nostra caffetteria. Palla dopo palla, filo dopo filo ed ago dopo ago, del gioioso sempreverde non e' rimasto che un triste tronchetto – che ancora giace inerme nel solito angolino, dove rimarrà molto probabilmente fino alla prossima festività cristiana – peraltro deriso da tutti quelli che passano a prendere il caffè.
Poi, all'improvviso, mentre guardavo il tronchetto e pensavo alla lista delle cose da fare che mi attendeva sulla scrivania, ho visto lui: Willy, o l'uomo del termostato. E lì ho avuto l'illuminazione.

L'uomo del termostato è l'addetto alla risoluzione di tutti i problemi tecnico-pratici dell'edificio. Le sue competenze spaziano dalla riparazione di un rubinetto che perde acqua alla verifica del funzionamento degli estintori, dalla sostituzione delle lampadine alla regolazione, appunto, del termostato in ciascun ufficio. Non importa quale numero si chiami o quale sia il difetto segnalato, quando la voce metallica dall'altro capo del ricevitore ti congeda dicendo che "un addetto passerà e si occuperà del problema" ci si puo' ragionevolmente aspettare che arrivi lui. Willy. Soprattutto, non importa che si tratti di un guasto non imputabile ad una persona specifica o che la temperatura rilevata nell'ambiente sia di 25 o 5 gradi, Willy dirà che e' comunque colpa tua
Ora, nonostante l'espressione burbera e perennemente incazzata del soggetto in questione, trovo stranamente che ci sia qualcosa di rassicurante nell'uomo del termostato. Nel solo fatto di poter contare su di lui e sulla predica che inevitabilmente toccherà ascoltare una volta sollecitato il suo intervento. Nel fatto che passano le stagioni, crollano i dittatori, delirano i mercati e aumentano i prezzi, ma lui è sempre lì, noncurante, con la salopette da lavoro blu, e sembra non preoccuparsi di nulla fuorché del filtro dell'aria calda manomesso da qualche incompetente (ovvero io, nella sua logica). Nel fatto che, malgrado tutto, ogni problema con lui e' risolvibile.

E così, mentre lo guardavo borbottare qualche cattiveria contro quel che restava dell'albero, ho ceduto e ho segretamente pensato anch'io al mio buon proposito per il duemiladodici.
Mi piacerebbe imparare a prendere tutto un po' più alla leggera, a cominciare da me. A dare il giusto peso alle cose, e a trovare il tempo per la felicita' prima della serieta'. A ragionare con la pancia, e non sempre necesariamente con la testa. E convincermi che in fondo a tutto si può trovare rimedio. 
Anche al mio termostato.